In epoca imperiale romana si perfezionarono le tecniche di vinificazione
La vite e il Cristianesimo
In epoca imperiale romana si perfezionarono le tecniche di vinificazione e, tra il II sec. a.C. e il I sec. d.C., si iniziò anche a scrivere di enologia. Con la religione cristiana, il vino fu utilizzato come simbolo del sangue che Cristo versa sulla croce, sacrificio richiamato in occasione della comunione eucaristica, e veniva condiviso tra tutti i fedeli, che in tale circostanza si accalcavano presso l’altare. Si rese perciò necessario creare all’interno delle prime basiliche un divisorio tra navata e presbiterio, l’iconostasi, secoli dopo ridotta ad una semplice balaustra, con funzione di “ordine pubblico”.
La tarda romanità e la caduta di Roma
La caduta dell’Impero Romano d’Occidente avrebbe, secondo molti, provocato la crisi della viticultura, mantenuta nel corso dell’Alto Medioevo solamente in relazione proprio alla liturgia cristiana. A sostegno di questa tesi, vengono presentati molti documenti medievali che menzionano, insieme ad i nobili, monasteri e vescovi come i maggiori produttori di vino, ma ciò dipende in realtà dalla semplice coincidenza che tutti costoro fossero i grandi proprietari terrieri. La crisi colpì la circolazione di tutte le derrate alimentari per le difficoltà di trasporto, i costi, la pirateria, ma la viticoltura si mantenne in realtà dappertutto a livello locale, visto che era diffusa ormai in ogni angolo dell’Impero. Inoltre, se esistevano anche testi legislativi come l’Editto di Rotari, che comminava pene molto severe a chi rubava grappoli d’uva o danneggiava le viti, si ha prova dell’importanza di un prodotto che non poteva esaurirsi solo in un consumo così settoriale e limitato quale quello cerimoniale. Gli scavi riguardanti, ad esempio, l’epoca paleocristiana e tardoantica, presentano corredi che comprendono vasellame da mensa, tra cui piccole brocche che venivano utilizzate per l’acqua ed il vino a tavola. A tal proposito, anche la necropoli di Tropea relativa a questo periodo è ricchissima di materiale di uso domestico in ceramica sigillata africana, tra cui significativa è proprio l’ingente quantità di queste brocchette, quasi tutte monoansate e seriali, e datate tra il V ed il VII sec. d.C., mentre particolarissima è una versione in vetro soffiato.
L’inversione di tendenza medievale
Alla fine del XIV secolo, il quadro si modifica: a causa dell’imposizione dei noli “discriminati” all’interno dei porti, con tariffe che andavano a gravare sui beni dal valore più elevato, anche il vino di medio pregio poteva avere un apprezzabile margine di guadagno se inviato nel Nord Europa, ove vi erano i maggiori consumatori, soprattutto le nuove classi benestanti, per le quali era un simbolo di “status”, in opposizione a quelle umili, che consumavano una “bevanda ottenuta dalla fermentazione del luppolo”. Nel momento in cui il vino acquista tale valore, l’approvvigionamento di quelli di qualità superiore diventa un obbligo, per cui i più pregiati, come la malvasia egea e i vini libanesi di Tiro, erano gli unici ad avere un commercio. Sul finire del Trecento, invece, i documenti registrano anche le qualità considerate di un livello più basso veleggiare per lunghe tratte e in grossi quantitativi, e sottolineano come la Calabria, scarsamente citata in passato come produttrice ed esportatrice di vino, fu invece uno dei fulcri più interessanti. I vini calabresi prendevano il mare principalmente dal porto di Tropea verso empori importanti, come Livorno, la Provenza, Barcellona, Palma di Maiorca, Bruges, con servizi addirittura diretti, o a volte con cambio di mezzo a Maiorca. Spesso, molte operazioni erano indirizzate a Napoli o Torre del Greco, dove navi costiere portavano frequentemente piccoli quantitativi che venivano raggruppati su grosse imbarcazioni. Livorno è molto interessante perché vuol dire Firenze, la città allora più popolosa e ricca d’Italia, dove i documenti rivelano che quello calabrese era il vino più costoso dopo quelli orientali: non sembra proprio un caso che, ancora oggi, nel capoluogo toscano la parola “tropea” sia sinonimo di “sbornia”. E, ancora, si riportano decine di esportazioni a Maiorca, nodo di smistamento verso il Mare del Nord, talvolta indicando anche il luogo di imbarco, Turpia cioè Tropea, che superano le 150 botti, e la menzione di un carico addirittura di 550 botti (hl 1760). Un mercante fiorentino, Bartolomeo di Francesco, si reca personalmente a Tropea per rifornire di vino Barcellona, come riportato in una lettera del 1402. La città tirrenica non era però solamente il più importante centro di raccolta, ma anche una grandissima produttrice: la Platea di Mons. Mirto-Frangipane, Vescovo dal 1480 al 1499, costituisce un prezioso documento anche in questo senso. Si tratta di un libro manoscritto che elenca tutte le proprietà della Diocesi a cavallo tra ‘400 e ‘500, il cui studio, relativamente alle colture del territorio tropeano, sottolinea come la sola Chiesa possedesse moltissime vigne, specificando anche le località, come la zona «iuxta burgum. Numero miliarum viginti», o la Gurnella, Santa Venere e il Campo, tra le quali solo in quest’ultima, ad oggi, è presente un’azienda vitivinicola. Le cifre, assolutamente considerevoli, danno l’idea dello sviluppo di quest’attività, specie se unite ad ulteriori testimonianze inerenti le “professionalità” che si sviluppano: i documenti menzionano infatti la presenza in Sicilia, dopo il 1370, di vignaioli “oriundi” da Tropea, con buoni salari, più vitto e scarpe.