Diffusione della bachicoltura in Europa
Il pregiato tessuto, proveniente dalla Cina, fu avvolto per millenni dal mistero che né i greci, né i romani, ammaliati dalla sua lucentezza, riuscirono a dipanare, fino a quando, secondo Procopio di Cesarea, storiografo di Giustiniano, il segreto fu finalmente svelato nel VI secolo grazie all’intraprendenza di certi monaci che si recarono in Asia con tale intento e tornarono a Bisanzio con le uova del Bombix mori all’interno di bastoni di bambù: era infatti la larva di questa specie di falena che, cibandosi delle foglie di gelso, creava il bozzolo da cui ricavare il prezioso filo. In Calabria, parte dell’Impero Romano d’Oriente, venne presto introdotto il sistema di produzione serica, migliorato in seguito dai Normanni che dalla guerra contro i Bizantini nel 1148 tornarono portando tra i prigionieri alcuni artefici della seta. La sericoltura si diffuse in tutta la regione, ma fu Catanzaro a brillare per la qualità delle sue stoffe, favorita anche dalle politiche angioine e aragonesi che sollevarono dai dazi l’industria serica e proteggendo tale fonte di ricchezza, che prosperava anche grazie alla stretta vigilanza di Commissarii del Municipio, il cui operato venne legalizzato da Carlo V nel 1519 attraverso l’istituzione del Consolato dell’Arte della Seta. Per tutto il Trecento la città calabrese rifornì le seterie meridionali, fiorentine, spagnole e francesi, tanto che un secolo più tardi i maestri setaioli catanzaresi furono invitati da Luigi XI a Tours perché ivi insegnassero la loro pregevole arte: tra di essi vi era un tale Giovanni, ricordato come Jean Le Calabrais, che propose un tipo di telaio per ottenere trame più complesse e per l’uso del quale era sufficiente un solo addetto. Proprio per questo il progetto venne boicottato, per essere poi ripreso e rielaborato solo nel XIX secolo da Joseph Maria Jacquard, che gli diede il nome.
La seta a Tropea
La filatura della seta costituì per Tropea la manifattura più importante, tanto che la città fu considerata in Calabria come una delle capitali di un settore che conobbe il suo periodo di massima espansione nel XVI secolo, ma che si può desumere ancora fiorente nel ‘600 dalla consultazione del prospetto della Matricola dell’Arte della Seta riferito al periodo compreso tra il 1554 e il 1698, dal quale si riscontra un elevato numero di iscritti quasi esclusivamente appartenenti alle famiglie del luogo, per lo più nobili-mercanti, e tra i quali soltanto due sono indicati come maestri. La materia prima, il baco, era nella maggior parte dei casi di proprietà della classe aristocratica che possedeva i fondi siti nel territorio del contado tropeano, il cui clima mite favoriva la coltivazione del gelso, e dove avvenivano le operazioni di produzione, dall’allevamento fino alla filatura, che costituivano le fasi di un’attività a conduzione familiare svolta per lo più dalla classe popolare operante in ambienti appositi ricavati nelle stesse abitazioni. Tale situazione risulta evidente dalle Numerazioni dei fuochi del 1642 relative appunto ai casali, dove si legge, ad esempio nel caso di Orsigliadi, di una casa il cui basso ospitava un telaio con seta da tessere. Ed inoltre, sempre nella stessa zona, a S. Nicolò, la descrizione della casa di Gian Giacomo Fazzali di Tropea, il quale spiega di essere lì per fare «la notricata come si può vedere dalli angelilli che sono sopra li cannizzi…», prova come a volte fossero i proprietari stessi a provvedere al nutrimento del baco. Il greggio frutto di questo artigianato a domicilio, che occupava l’80% delle donne in tutto il territorio, era in parte lavorato a Tropea e venduto nei comuni limitrofi, mentre il resto veniva rifinito a Catanzaro. Verso la fine del ‘700 la seta veniva ancora esportata in Francia, cosa che costituirà l’ultimo colpo di coda di una tradizione plurisecolare, che non riuscirà però mai a diventare una vera e propria industria, e sarà perciò destinata a concludersi poco meno di un secolo dopo.
I paramenti sacri
Il patrimonio tessile della Cattedrale vanta una grandissima quantità di parati caratterizzati da brillanti cromie, differenti a seconda dell’impiego liturgico, e da fatture di estrema qualità, provenienti dalle città italiane ed estere più rinomate in campo serico. Ad eccezione di elementi più antichi, nello specifico due tunicelle tardo-cinquecentesche in seta verde con maniche e bordo inferiore in damasco classico verde, gialla e bianca di fattura veneziana, la collezione si compone di oltre 200 esemplari che vanno dal XVII fino ai primi del XX secolo, tra i quali risultano certamente più ricchi, sia dal punto di vista della lavorazione che dei tessuti utilizzati, quelli risalenti al periodo barocco. Il verde, simbolo della speranza ed adoperato nel tempo ordinario, ed il rosso, che rappresenta la Passione, sono i colori predominanti di una grande quantità di parati in damasco classico ad un’unica tinta, alcuni provenienti da Napoli e dalla Spagna. Molto particolari sono due pianete fabbricate in Sicilia, l’una settecentesca realizzata in damasco classico in seta verde con fantasia floreale broccata in sete policrome, mentre l’altra, risalente al XVII secolo, è in seta rossa con fantasia floreale in broccato d’oro e argento. Ancora secentesca è una pianeta veneziana in damasco classico in seta azzurra, tonalità associata alla Madonna e quindi usata nelle sue festività, così come il bianco, rappresentato da una pianeta in taffetas canetillè in seta bianca broccato in oro e sete policrome tessuta a Lione e da un piviale di seta bianca con fantasia floreale in broccato d’oro e sete policrome dalla vicina Catanzaro, entrambi del XVII secolo. Per celebrare la Domenica Gaudete e la Domenica Laetare nel Settecento il Vescovo Giovanvincenzo Monforte indossava la sua pianeta in seta rosa con fantasia floreale in broccato d’argento, splendido manufatto proveniente dalla Sicilia.