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Raffinata testimonianza gotica

Sulla punta settentrionale del masso di arenaria dalla quale emerge il centro storico di Tropea, sorge, addossata alla parete destra della chiesa dei Minori Conventuali, la cappella gentilizia di San Bartolomeo, sulla quale a partire dall’inizio dello scorso secolo molto si è scritto cadendo spesso in errore, non ultimo quello che la identificava con la cappella di Santa Margherita, che si apre invece sul lato opposto dell’unica navata della stessa chiesa. A questa serie di ricerche ha dato ordine il saggio di Antonio Preiti (La cappella trecentesca di San Bartolomeo, detta di San Demetrio a Tropea, in Il Francescanesimo in Calabria, atti del Convegno, 2006), che individua come base certa per la datazione e la committenza dell’opera la Bolla di Bonifacio IX dell’11 settembre 1397, con la quale il papa invitava il vescovo di Mileto, che in quel periodo di vacanza della cattedra tropeana amministrava in essa gli affari ordinari, a confermare nella cappella di San Bartolomeo, eretta da Saladino Santangelo a ridosso delle mura della chiesa di San Francesco, il juspatronato in perpetuo per gli eredi e i successori del suo fondatore. Quest’ultimo era molto vicino a re Ladislao, che lo rese capitano a vita di Tropea nel 1392 e maresciallo del regno. Sul monumento, che per i motivi suddetti si può far risalire all’ultimo decennio del XIV secolo, non ci sono precisi riferimenti in documenti successivi, come le Visitae ad Liminae; solo nel 1720 in Crhonologica Collectanea dell’Abate Sergio viene descritto come di pertinenza della famiglia romana dei Tomacelli.

La struttura

Il sacello, a picco sulla rupe, è a pianta rettangolare coperta da una volta a crociera costolonata e conserva ancora alcuni brani degli affreschi che ricoprivano le superfici murarie e il soffitto. Libero su tre lati e chiuso in alto da una sopraelevazione dell’attiguo palazzo Collareto Galli, ha un ingresso autonomo (il collegamento interno con il presbiterio è avvenuto in epoca non precisata) definito da un portale con due stretti fasci di colonnine di vario diametro su cui s’imposta un arco ogivale con doppia ghiera strombata, la cui parte terminale è aggettante e decorata con foglie gotiche; in chiave è la figura dell’Ecce Homo. Sia sul fronte principale che su quello opposto che volge ad est sono state ricavate successivamente due finestre quadrangolari, la prima, immediatamente sopra l’accesso, è contornata da tre stemmi araldici, la seconda ha sostituito quella originale a sesto acuto parzialmente distrutta, le cui tracce sono ancora visibili; entrambe le pareti presentano cornici marcapiano scolpite.

L’araldica

Fondamentale per datare l’opera è anche lo studio dei tre emblemi in facciata, probabilmente coevi: lo stemma reale, posto al centro e sorretto da due angeli in volo, è interzato in palo, nel primo, fasciato di rosso e d’argento di otto pezzi, dell’Ungheria Antica, nel secondo d’azzurro seminato di gigli d’oro dei d’Angiò, e nel terzo d’argento, alla croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso, di Gerusalemme. Quest’arme è da attribuire solo a Carlo III d’Angiò e ai suoi figli Ladislao e Giovanna II, quindi attestabile in un arco temporale compreso tra il 1385 e il 1453, e la sua presenza potrebbe essere spiegata come concessione d’uso al Santangelo, che era nelle grazie di re Ladislao, anche se solitamente le due figure angeliche a sostegno indicano sepolture direttamente afferenti la casata regnante. Più complicata è la questione dei due blasoni sottostanti racchiusi in cornici mistilinee quadrilobate posizionate ai lati della finestra: questi infatti non sono inseriti negli elenchi noti, ma mentre quello a sinistra …a due branche di leone uscenti dai lati dello scudo, è inciso sulla lastra tombale trovata all’interno della chiesa, quello a destra …allo scettro posto in banda sormontato da un’aquila dalle ali spiegate, è assolutamente sconosciuto. 

Il sepolcro di Andrea de Rogerio

Nel corso dei lavori di restauro effettuati nel 1933 venne rinvenuto un frammento di lapide, ora al Museo Diocesano, che era stato rivoltato ed utilizzato come soglia della chiesa: mutilo di un terzo, il bassorilievo è diviso in tre parti con da sinistra S. Pietro, riconoscibile per le chiavi, S. Caterina d’Alessandria, con la ruota del martirio, infine, nel settore più grande, la Madonna col Bambino in trono fra due angeli reggicortina. Grazie ad un disegno di Franz Ludwing Catel (Parigi, Bnf), che nel 1812 con l’archeologo Aubin-Louis Millin e lo scrittore Astolphe de Custine visitò il Regno di Napoli, si ha contezza del monumento originale (molto simile a quello di Nicola Ruffo della chiesa di S. Francesco a Gerace realizzato dopo il 1372): il tratto dell’artista restituisce infatti l’immagine dell’intero sepolcro, sostenuto da due coppie di colonnine tortili ai lati ed al centro da due figure antropocefale, con una chiusura obliqua su cui è raffigurato il cavaliere; è altresì evidente la parte mancante della lastra in cui sono rappresentati, in maniera simmetrica, altri due santi, una martire non identificata e S. Paolo. Al nome del defunto, Andrea de Rogerio, è risalito Lo Torto (1999) ricostruendo l’iscrizione, per quanto molto rovinata e lacunosa, incisa sul bordo superiore del frammento superstite. Di questo personaggio però non si trova comunque riscontro nelle cronache tropeane o nei documenti, per cui ancora non è chiaro il perché sia stato sepolto all’interno della cappella del Santangelo e quali rapporti avesse con lui. Il mistero non è ancora del tutto svelato.