Il Tesoro della Cattedrale di Tropea
Tracce di un importante passato
La notevole ricchezza del Tesoro della Cattedrale è legata al succedersi di presuli, spesso provenienti da altre regioni italiane e, durante il Viceregno, dalla penisola Iberica, che agevolarono i rapporti con ambiti culturali esterni alla realtà locale, soprattutto con i due poli artistici più prossimi di Messina e Napoli. Sostanziale fu altresì il ruolo del Capitolo della Cattedrale, i cui membri, spesso appartenenti al patriziato cittadino, si trovarono a condurre la Diocesi nei lunghi periodi di “vacanza” attraverso il Vicario Capitolare e a gestire i preziosi in dotazione alla sagrestia. Le indagini sulle fonti d’archivio, relative anche a pezzi sfortunatamente dispersi, evidenziano un costante aggiornamento artistico delle committenze vescovili, dalla fine del medioevo fino al XIX sec. Il patrimonio del Tesoro è tuttora esposto nella Sala dell’Eucaristia del Museo Diocesano di Tropea, le cui teche conservano gelosamente pregevoli suppellettili liturgiche, ostensori, turiboli, calici, e le corone della Madonna di Romania assieme ai numerosi ex voto donati dai fedeli.
Il bacolo pastorale
Il pezzo più importante e la più antica testimonianza del Tesoro della Cattedrale è da considerarsi il ricciolo di bacolo pastorale, creato da una bottega orafa napoletana in forme tardo-gotiche nella seconda metà del XV sec. L’opera s’innesta su un nodo di raccordo dorato di sezione esagonale a forma di tempietto architettonico con cupola circondato da edicole con copertura a guglia in cui campeggiano una statuina della Vergine col bambino e cinque santi (Pietro, Paolo, un santo vescovo, Bartolomeo e Giacomo). Il ricciolo a sezione tondeggiante è in argento e decorato sui due lati da un fregio continuo a ramages in filigrana d’argento che incastona fiori a cinque petali in smalto opaco bianco-crema su un fondo traslucido, alternativamente blu, verde e rosso. Sulle due coste del ricciolo si susseguono foglie d’acanto dorate che ne sottolineano la curvatura. Un angelo rampante dalle ali spiegate sostiene la parte estrema del ricciolo entro il quale un vescovo inginocchiato prega di fronte a un Cristo benedicente, assiso in trono. Per lungo tempo si è pensato che il bacolo fosse stato donato dal duca Ruggero Borsa al primo vescovo latino della Città. Le cifre stilistiche del pezzo però non collimano con questa datazione avanzata dal canonico Galluzzi nel 1933. Furono poi gli studi del tedesco Angelo Lipinsky a contestualizzarlo collocandolo in un preciso arco temporale: egli infatti accomunò l’opera ad altre tre dalle stesse caratteristiche fisiche e decorative (Bacolo di Troina, quello di Reggio Calabria e quello di Potenza), e perciò riconducibili alla stessa bottega napoletana. Essendo databili con certezza sia l’esemplare potentino per un’iscrizione (1457) sia quello reggino per uno stemma vescovile (1453-’88), il Lipinsky individuò nel vescovo Pietro Balbo (1463-’79) il possibile committente del pezzo tropeano, ipotesi alla quale è opportuno unire anche il suo successore Giuliano Mirto Frangipane (1480-’99).
Le portelle della Madonna di Romania
Le portelle in puro barocco napoletano, datate 1704, furono create da Francesco Avellino su richiesta del Vescovo Lorenzo Ibanez (1696-1726). La volontà del presule era quella di celare il dipinto alla continua vista dei fedeli per svelarlo solo in precise occasioni solenni, ciò per meglio regolamentare la loro devozione verso la Vergine. L’opera si compone di due lamine in argento cesellato e sbalzato, montate su assi di legno, decorate da una ricchissima fantasia di elementi vegetali che racchiudono due medaglioni istoriati dal profilo leggermente bombato e sporgente: a sinistra un galeone veleggia verso la città di Tropea, a ricordare la tradizione che vuole la preziosa tavola giunta proprio grazie ad una nave che non riusciva a proseguire la rotta, finché il capitano non decise di lasciare la Madonna nella città da questa prescelta; nel secondo la Vergine di Romania appare in sogno al Vescovo Ambrogio Cordova (1633-’38) per chiedere che le fosse dedicata una processione penitenziale nel giorno 27 marzo del 1638. Fu proprio nel momento in cui tutta la popolazione si trovava fuori dalle proprie abitazioni che si scatenò uno dei più disastrosi terremoti dell’epoca moderna, risparmiando la città di Tropea. L’episodio fu vissuto come un miracolo della Vergine di Romania che venne da allora posizionata sull’altare maggiore e proclamata compatrona.
La scultura di Santa Domenica
L’opera, attribuita al napoletano Francesco Avellino, fu realizzata nel 1738, con il contributo del Vescovo Gennaro Guglielmini (1732-’50) e dell’Universitas tropeana, in lamina d’argento cesellata e sbalzata ed incorporata ad un piedistallo reliquario rivestito in argento e rame dorato (contenente un frammento della colonna, presso la quale la martire fu decapitata, che il vescovo Monsignor Lorenzo Ibanez ebbe dalla città di Nola). La scultura a figura intera, montata su un’anima in legno, raffigura la Santa che reca nella mano sinistra i simboli del martirio, la Croce e la palma, e un libro che rappresenta la sua attività di proselitismo. In basso a destra due piccoli lupi in rame dorato, uno dei quali lecca il piede della fanciulla, che ricordano l’episodio relativo al fallito tentativo di martirio all’interno dell’arena da parte dei romani; in basso a sinistra un’immagine stilizzata della città di Tropea, che all’epoca conservava ancora tutte le strutture tipiche di una cittadella fortificata medievale (torri e bastioni furono rimossi nel corso del sec. XIX). La statua è posta al centro della Sala del Vescovo del Museo Diocesano per poter meglio ammirare il magistrale lavoro di cesello dell’autore nella resa della veste che imita i broccati dell’epoca, ricchi di motivi floreali a grandi girasoli.