Dalla crisi del ‘600 all’800
Nei primi decenni del XVII sec., vari fattori, tra cui la pressione fiscale e l’orientamento della Corte viceregnale verso l’alienazione di beni demaniali, crearono una crisi generale in tutte le province del Mezzogiorno. Tropea, città regia da epoca normanna, non poté non risentirne in maniera diretta, per quanto i vari tentativi di venderla ad un feudatario fallirono. Pur non essendo, secondo gli storici, un’area particolarmente depressa, la città subì la mancanza di liquidità, per cui diminuirono drasticamente gli investimenti sui terreni. La crisi generale fa quindi registrare un calo della produzione vitivinicola nei poderi dei nobili, e la fine della grandissima esportazione vinaria, che aveva rappresentato il fiore all’occhiello del commercio tropeano fin dal 1300. Ciononostante, e per quanto cedette progressivamente il passo ad altre colture considerate più redditizie, la vite rimase presente nelle campagne intorno a Tropea e dei suoi casali: nella seconda metà del 1800 l’arciprete Petracca, descrivendo il territorio del Comune di Ricadi, anticamente villaggio di Tropea appunto, sottolinea le squisite uve da cui si ricava «un tanto rinomato vino», e specifica che erano coltivate trenta tipi di vite.
I vitigni autoctoni calabresi
All’interno della medesima zona esiste una “Località Magliocco”, chiaro riferimento a fondi in cui si presume fossero presenti grandi distese di questo vitigno a bacca nera tipico della Calabria (registrato ufficialmente al Catalogo nazionale varietà di vite da 1971), tra quelli autoctoni insieme al gaglioppo, al nerello mascalese e, per i bianchi, il greco e il montonico. In Calabria, oltre a queste, sono però coltivate anche tantissime altre varietà, eppure risulta una delle sole 5 regioni italiane a non avere nemmeno una DOCG. Questo è un elemento interessante, che forse può permettere di lavorare su alcune ipotesi relative a quello che è stato il destino della viticultura in Calabria nel XIX e nel XX secolo. A parte lo sviluppo di altre colture, ad esempio, nel caso di Tropea, quella della cipolla rossa, che ne è divenuta simbolo, il rimanere una produzione sostanzialmente non più destinata al commercio su larga scala, ne condizionò presumibilmente anche la qualità. I documenti d’archivio dal Trecento al Seicento, purtroppo, non menzionano mai i vitigni, ma il già citato Petracca parla di ben trenta tipi di vite in un territorio abbastanza limitato, e ciò qualche anno prima dell’arrivo della fillossera. E ancora, parlando tutt’oggi con qualche vecchio vignaiolo dell’hinterland dell’antica città dominante, corrispondente ai borghi agricoli che ne dipendevano, questi rivela che il vino si faceva con «un po’ di tuto… magliocco, gaglioppo, greco, malvasia… tutto mescolato insieme…». Curiosa tradizione, poi, ancora perpetrata fino a qualche decennio fa, era l’usanza in occasione di un matrimonio di impiantare una nuova vigna cui veniva dato il nome dello sposo, cosa che, oltre al fine pratico di servire per datare l’impianto, è interessante come “legame” tra un evento fondamentale per una piccola comunità, la nascita di una nuova famiglia, e la prospettiva produttiva di vino per il futuro. Ne esce un quadro in cui probabilmente la viticultura continuò ad essere molto importante per le campagne, ma rimase in buona sostanza ad un livello esclusivamente locale, se non addirittura “casalingo”, per cui non esisteva studio del terroir, né l’idea di selezionare i vitigni con la resa qualitativa maggiore, o ancora l’eventuale elaborazione di blends e tagli finalizzati ad un prodotto dalle accentuate caratteristiche organolettiche.
Il salto di qualità
Fortunatamente, da alcuni decenni a questa parte, molto è cambiato, e finalmente, in tutta la Calabria, c’è chi si è dedicato alla vitivinificazione in maniera moderna, scientifica, non senza cercare di valorizzare la tradizione millenaria e riproporre alcuni metodi, quali la macerazione e fermentazione in botte o in anfora interrata, per cui si arriva addirittura a parlare di etno- e di arche-enologia. Ed anche a Tropea, soprattutto negli ultimi anni, e nei territori immediatamente limitrofi, specie quelli di maggior tradizione, quali le fertili colline di Brattirò e i versanti costieri di Capo Vaticano, cantine nuove, o cantine storiche votate a metodi attuali, hanno iniziato a proporre al pubblico una selezione varia e qualitativamente adeguata ai nuovi mercati ed alla sempre crescente competenza del degustatore. Queste aziende, insieme ad altre realtà della provincia, si sono riunite infine nel 2020 nell’Associazione Viticoltori Vibonesi, il cui scopo è quello di lavorare in sinergia per ottenere l’IGT “Costa degli Dèi” per i vini prodotti lungo il litorale da Pizzo a Nicotera ed aree circostanti, per poi puntare ad una denominazione di origine.